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Testo per ricorso incostituzionalità decreto Milleproroghe anatocismo a disposizione dei legali di tutta Italia

Ecco il testo – messo a disposizione dagli avvocati dell’Adusbef ai legali di tutta italia – per presentare nei processi in corso in materia di contenzioso bancario la richiesta alla Magistratura della rimessione alla Corte Costituzionale del Milleproroghe (alias Ippopotamo) sull’anatocismo, nella parte in cui nella parte in cui “interpreta” l’art. 2935 c.c. sulla prescrizione dei diritti nascenti dall’annotazione in conto (art. 2 quinquies comma 9 poi convertito in art. 2 comma 61 della legge n. 10 del 26 febbraio 2011, conversione del precedente decreto legge 29 dicembre2010 n. 225) .
Il Presidente della Repubblica già aveva sottolineato i numerosi rilievi di incostituzionalità: in poche settimane il testo è stato scaricato- consultato migliaia di volte.

 

Profili di incostituzionalità della norma interpretativa dell’art. 2935 c.c.
(degli avv.ti Aldo BERNARDONI, Domenico GUADALUPI ed Antonio TANZA dell’Associazione Adusbef
)


“Il disegno di Legge n. 2518, ovvero il c.d. maxiemendamento al decreto Milleproroghe (D.L. 29 dicembre 2010 n. 225, provocatoriamente denominato “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie”), approvato al Senato, con il ricorso alla “fiducia”, in data 16 febbraio 2011, e quindi approvato anche dalla Camera (sempre con il ricorso alla “fiducia”), il 25 febbraio 2011, per poi essere nuovamente approvato dal Senato (a causa di insignificanti modifiche apportate dal Governo a seguito del vano richiamo del Presidente della Repubblica in data 22 febbraio 2011), in data 26 febbraio 2011 contiene, tra l’altro, una norma estremamente oscura: l’art. 2 quinquies, comma 9.
Il testo così recita:
“In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge”.
La norma ha profili
dilettanteschi e, se vogliamo, ridicoli (peraltro comprensibili ove si consideri il contesto “nordafricano”, con tutto il rispetto per gli Africani, in cui è stata approvata).
Basti considerare che la stessa ove, letteralmente interpretata, potrebbe determinare un
effetto Kamikaze per le banche: infatti, se il diritto derivante dalle annotazioni si prescrive in dieci anni ciò si dovrebbe verificare indiscriminatamente sia per le annotazioni a favore della banca sia per quelle a favore del cliente.
Non parliamo poi dell’inciso secondo cui non dovrebbe farsi luogo alle restituzione di importi già versati.
Qualcuno dovrebbe spiegare per quale alchimia, ove la norma fosse davvero interpretativa, importi già versati, in relazione a giudizi pendenti, non dovrebbero più essere restituiti.
Insomma siamo davanti ad un vero
pasticcio di cui questo Paese dovrebbe vergognarsi.
Il discorso potrebbe portarci lontano ma intendiamo qui limitarci ad esprimere recise critiche a questo modo di legiferare, sollevando una serie di dubbi di costituzionalità (certamente non esaustivi) che succintamente di seguito si espongono.

A) I Limiti costituzionali delle norme interpretative
Con Sentenza n. 209 dell’11 giugno 2010 n. 2009 la Corte Costituzionale, nel solco di un consolidato orientamento, ha delineato i limiti costituzionali entro i quali il Legislatore deve contenersi nell’adozione di norme interpretative.
La Corte infatti ha così letteralmente Statuito”
” 5.1. – Questa Corte ha costantemente affermato che il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche “quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore” (sentenza n. 525 del 2000; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 374 del 2002, n. 26 del 2003, n. 274 del 2006, n. 234 del 2007, n. 170 del 2008, n. 24 del 2009).
Accanto a tale caratteristica, che vale a qualificare una norma come effettivamente interpretativa, questa Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, “che attengono alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento […]; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto […]; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico […]; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (sentenza n. 397 del 1994).
5.2. – Il confronto tra le disposizioni censurate ed i principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale – cui s’è fatto cenno nel paragrafo precedente – porta alla conclusione che le stesse non solo non possono essere ritenute interpretative, nel senso prima chiarito, ma ledono, con la loro efficacia retroattiva, il canone generale della ragionevolezza delle norme (art. 3 Cost.), l’effettività del diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.) e l’integrità delle attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria (art. 102 Cost.).”
E’ dunque da ritenere che una norma interpretativa, per essere costituzionalmente legittima, possa essere adottata dal legislatore solo quando sussistano incertezze sulla sua applicazione o contrasti giurisprudenziali ovvero anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore.
Tuttavia queste “precondizioni” non sono sufficienti.
Occorre inoltre che:
1. sia salvaguardato il principio generale di ragionevolezza, che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento;
2. sia tutelato l’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di Diritto;
3. sia salvaguardata l’effettività del diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.);
4. siano salvaguardate l’integrità delle attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria (art. 102 Cost.).

B) Il contenuto della norma salva banche
Non vi è chi non veda che la norma recentemente introdotta con la legge di conversione del c.d. decreto milleproroghe in tema di dies a quo del termine di prescrizione nei rapporti di conto corrente bancario, ove interpretata nel senso che il diritto del correntista di ripetere somme illegittimamente addebitate sul conto decorra dalla data dell’annotazione (questione sulla quale sarebbe legittimo nutrire seri dubbi ove di consideri il tenore strettamente letterale del testo e dilettantesca formulazione utilizzata), e non, come recentemente statuito dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite 02-12-2010, n. 24418 dalla chiusura del rapporto, viola non uno, ma tutti i principi sopra richiamati.
Si è visto in precedenza che tale norma, nella parte che qui interessa, così testualmente recita:
“In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa.”
Va preliminarmente osservato che tale norma, asseritamente interpretativa, interviene in un
contesto dottrinale e giurisprudenziale ampiamente consolidato e secondo cui il dies a quo per il decorso della menzionata prescrizione viene pacificamente collocato alla data di chiusura del conto.
Scriveva un importante autore già molti anni orsono:
“Agli effetti della pratica bancaria è opportuno distinguere gli atti giuridici da cui sorgono diritti di credito dalle semplici operazioni contabili di accreditamento ed addebitamento, le quali si effettuano secondo la tecnica delle scritture e delle registrazioni. (…) Ora è chiaro che l’operazione contabile [di accredito o di addebito, N.d.A.] non corrisponde punto alla costituzione di crediti o di debiti, ma è semplicemente un modo di rappresentare le modificazioni oggettive e quantitative che subisce un unico rapporto obbligatorio nel corso del suo svolgimento”[1]. Durante il corso del rapporto non si attribuisce a nessuno dei due contraenti la veste di debitore o di creditore “ma si lascia ciascuna delle parti, fino a completa estinzione del rapporto, nella sua rispettiva posizione originaria. In gran parte è fondata su questa considerazione la differenza che passa fra il contratto di conto corrente, previsto dagli art. 345 e ss. Cod. comm. e la forma generale dei “conti corrente bancari”“[2] .
Sulla scorta di tale orientamento dottrinale la Suprema Corte di Cassazione ha sempre statuito (vd. sentenza 9 aprile 1984, n. 2262) che “I contratti bancari di credito con esecuzione ripetuta di più prestazioni,
sono contratti unitari, che danno luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi; la serie di versamenti, prelievi ed accreditamenti (…) determina solo variazioni quantitative dell’unico originario rapporto (…) Solo con il conto finale si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti fra di loro [corsivo aggiunto]” [3].
Ovvio corollario di tale impostazione dogmatica, mai posta seriamente in dubbio, è quello statuito in una lunga serie di decisioni della Suprema Corte, e da ultimo nella citata sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite, nella quale si legge al punto 3.1. della motivazione
“A tale riguardo è opportuno anzitutto ricordare come la pregressa giurisprudenza di questa corte, alla quale anche l’impugnata sentenza ha fatto riferimento, abbia già in passato avuto occasione di affermare che il termine di prescrizione decennale per il reclamo del le somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che da luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro (Cass. 9 aprile 1984, n. 2262; e Cass. 14 maggio 2 005, n. 10127).”
E ancora, al punto 3.2. “Occorre considerare che, con tutta ovvietà, perchè possa sorgere il diritto alla ripetizione di un pagamento indebitamente eseguito, tale pagamento deve esistere ed essere ben individuabile. Senza indulgere in inutili disquisizioni sulla nozione di pagamento nel linguaggio giuridico e sulla sua assimilazione o distinzione dalla più generale nozione di adempimento, appare indubbio che il pagamento, per dar vita ad un’eventuale pretesa restitutoria di chi assume di averlo indebitamente effettuato, debba essersi tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte di quel medesimo soggetto (il solvens), con conseguente spostamento patrimoniale in favore di altro soggetto (l’accipiens); e lo sì può dire indebito – e perciò ne consegue il diritto di ripeterlo, a norma dell’art. 2033 c.c. – quando difetti di una idonea causa giustificativa.
Non può, pertanto, ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l’attore pretende essere indebito, perchè prima di quel momento non è configurabile alcun diritto di ripetizione. Nè tale conclusione muta nel caso in cui il pagamento debba dirsi indebito in conseguenza dell’accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione al quale è stato effettuato, altra essendo la domanda volta a far dichiarare la nullità di un atto, che non si prescrive affatto, altra quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di una prestazione eseguita: sicchè questa corte ha già in passato chiarito che, con riferimento a quest’ultima domanda, il termine di prescrizione inizia a decorrere non dai la data della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella de pagamento stesso: Cass. 13 aprile 2005, n. 7651).
Ne consegue de plano che
la norma in esame non è affatto interpretativa perché, al fine di far decorrere la prescrizione dalla data della annotazione dell’addebito di interessi, attribuisce all’annotazione stessa l’efficacia di un pagamento il ché, come insegna la Suprema Corte, contrasta con il principio “ovvio” che l’annotazione in conto non è un pagamento.
In altri termini l’
infelice Legislatore del milleproroghe, al fine di salvare le banche dalle legittime azioni dei correntisti, introduce, assumendo falsamente di interpretare una norma esistente, un concetto totalmente innovativo, in contrasto con ciò che la Suprema Corte ha qualificato come ovvio, e cioè che l’annotazione in conto è un pagamento.
In buona sostanza il legislatore, vestendosi indebitamente da interprete, ha fatto
de albo nigro e ha preteso di considerare un pagamento ciò che pagamento non è, e pagamento non sarà mai sin tanto che il rapporto di conto corrente manterrà la sua attuale struttura e natura.

C) Sulla non retroattività della norma
Dunque il Legislatore non ha interpretato ma ha innovato con l’ovvia conseguenza che la norma, ammesso e non concesso, che sia conforme alla Costituzione (il ché non è come vedremo nel prosieguo) non ha nulla di interpretativo per cui la prima conseguenza da trarre è che la stessa non potrà avere effetti per il passato e sui giudizi in corso.
Sotto questo profilo occorre considerare che le norme sulla prescrizione, pur avendo una natura sostanziale, producono i loro effetti sul piano processuale della effettiva possibilità di godere della tutela giurisdizionale.
Ne consegue che,
ove la norma in parola si applicasse anche per il passato e ai giudizi in corso, si avrebbe un’evidente frustrazione dell’articolo 24 Cost.
A tale proposito vale la pena di ricordare, richiamando una meritevole sentenza del Tribunale di Varese dello scorso 8 ottobre 2010, che
“l’ordinamento Civile Italiano, perseguendo il fine di deflazionare il contenzioso e al contempo preservando l’esigenza di certezza del diritto, valorizzando l’interesse pubblico alla prevedibilità delle decisioni, ha nel tempo rafforzato l’efficacia vincolante del precedente di legittimità, in particolare di quello autorevole reso a Sezioni Unite, “potenziando” il controllo nomofilattico, valorizzando la peculiare vocazione del giudizio di legittimità, e, così, perseguendo il tendenziale obiettivo di assicurare una esatta ed uniforme interpretazione della legge. In tal senso, dapprima, la legge 2 febbraio 2006 n. 40, modificando l’art. 374 c.p.c., ha previsto che il precedente delle Sezioni Unite non possa essere disatteso tout court dalla Sezione Semplice che, là dove intenda discostarsi dal pronunciamento nomofilattico, deve investire della quaestio juris in riedizione le stesse Sezioni Unite (art. 374, comma III, c.p.c.).
Lo stesso saggio di legificazione ha, anche, allargato le maglie procedurali del “principio di diritto nell’interesse della Legge” (art. 363 c.p.c.) sottolineando “una evoluzione legislativa (…) orientata al potenziamento della pura funzione di corretta osservanza della legge ed uniforme applicazione del diritto (su cui cfr. Cass. civ., Sez. Unite, sentenza 1 giugno 2010 n. 13332).
Successivamente, la legge 18 giugno 2009 n. 69 ha ulteriormente rafforzato la “tenuta” dalla regola giuridica a formazione nomofilattica introducendo uno scrutinio semplificato (sfociante in rigetto con motivazione agevolata) in caso di allineamento del decisum del giudice di merito al precedente conforme di legittimità (art. 360-bis c.p.c., su cui cfr. Cass. civ., Sez. Unite, ordinanza 6 settembre 2010, n. 19051).
Dalle premesse che precedono si trae una conclusione: la giurisprudenza delle Sezioni Unite non è più semplice espressione degli indirizzi di legittimità di un organo giudiziario ma Giudice che contribuisce a garantire la “certezza del diritto” nell’ordinamento (v. art. 65 ord. giud.) così divenendo il suo precedente tendenzialmente vincolante per il giudice di merito e avvicinandosi il diritto vivente al diritto positivo anche dal punto di vista della “introduzione” delle regole giuridiche e non solo dal punto di vista della loro interpretazione.
In tal modo si espresse già a suo tempo l’autorevole Dottrina, allorché segnalò come formalmente l’autorità del principio dello stare decisis in Italia si potesse ritrovare in due principi affermati dalla Cassazione: quello della motivazione semplificata in caso di richiamo al precedente di legittimità che si conferma e quello dell’obbligo di motivazione rafforzata nel caso in cui il precedente venga disatteso.
Entro tale cornice – come è stato Autorevolmente scritto – la Suprema Corte diventa “uno dei luoghi essenziali in cui la “legge” si definisce e si manifesta”.
Se così è, come è, la nuova infelice norma di cui qui si tratta ci pone di fronte, per quanto concerne i giudizi in corso, ad un vero overruling realizzato per via legislativa di talché è necessario affrontare il serio problema dell’efficacia nel tempo dell’abrogazione per via legislativa del precedente.
Sopravviene, in buona sostanza, una regola di diritto innovativa, in un contesto in cui, sino al nuovo pronunciamento parlamentare, ne vigeva una contraria.
Appaiono dunque puntuali rispetto al caso di specie le osservazioni di Autorevole Dottrina che afferma che la retroattività
“sorprende gli interessati e quindi attenua o esclude la prevedibilità” del comando legislativo: da qui, invero, una precisa risposta della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, come noto, impone la “conoscibilità della regola di diritto e la (ragionevole) prevedibilità della sua applicazione” (cfr. Sunday Times c. Regno Unito, sentenza del 29 aprile 1979, Par.Par. 48-49).
E’ dunque da concludere che, in analogia con quanto accade per mutamento giurisprudenziale
“creativo”, anche il mutamento interpretativo “creativo”, per via legislativa, vada applicato solo ai casi futuri (cfr., per verificare i principi della CEDU in tema di overruling: Cocchiarella c. Italia, sentenza del 29 marzo 2006, Par.44; Di Sante c. Italia, decisione del 24 giugno 2004;Midsuf c. Francia, decisione della Grande Chambre dell’ 11 settembre 2002″.
Il punto di partenza della
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è che il termine legge riguarda anche la norma di diritto vivente (“englobe le droit d’origine tant législative que jurisprudentielle”) con conseguente estensione del principio di irretroattività all’ipotesi di mutamento giurisprudenziale o legilslativo imprevedibile con effetti in malam partem.
Ebbene non si vede per quale la ragione i medesimi principi non debbano essere applicati a norme interpretative non prevedibili e tanto meno prevedibili nel caso di specie in cui l’interpretazione era appena stata data, con somma autorevolezza, dall’organo giurisdizionale deputato a farlo.
Anche la
Corte di Giustizia della CE ha recepito il principio di irretroattività della giurisprudenza creativa (cfr. da ultimo, CGCE, 8 febbraio 2007, C-3/06 P, Groupe Danone c. Commissione) stabilendo che deve essere impedita l’applicazione retroattiva di una nuova interpretazione di una norma nel caso in cui si tratti di un’interpretazione giurisprudenziale il cui risultato non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui l’infrazione è stata commessa.
La questione investe la problematica generale della principio di Legalità, che salvaguardia lo stesso accesso del cittadino alla Giustizia.
Si pensi che, nel caso di specie, migliaia di cittadini hanno adito i Tribunali confidando su un orientamento consolidato in tema di prescrizione
Ne consegue che una applicazione retroattiva della finta norma interpretativa di cui si tratta concreterebbe un colpo violento inferto al tessuto connettivo degli artt. 24 e 111 Cost. con manifesta violazione dei diritti dei cittadini coinvolti
Da qui la necessità di applicare la norma in questione (ammesso che sia legittima sotto altri profili) in una logica costituzionalmente orientata e quindi in modo non retroattivo.

D) Altri profili di incostituzionalita’
d.1) Violazione del principio di uguaglianza e ragionevolezza.

Non possiamo fermarci a sostenere la mera irretroattività della norma. il cui reale scopo, come pubblicamente ammesso da coloro che ne hanno propugnato l’accoglimento, è solo ed esclusivamente quello di frustrare gli effetti negativi, che per le banche (le quali hanno illegittimamente applicato interessi anatocistici a tassi non pattuiti) deriverebbero dai numerosi giudizi in essere e da altri potenzialmente instaurabili, tanto più dopo una arresto autorevole e definitivo come quello della Suprema Corte a Sezioni Unite e di cui alla citata sentenza 02-12-2010, n. 24418.
Dunque l
a nuova norma viola il principio di ragionevolezza e uguaglianza (art. 3 Cost) perché, senza alcun serio approfondimento tecnico giuridico, stravolge i principi consolidati sopra illustrati privilegiando ingiustificatamente le banche senza alcun motivo ragionevole e comprensibile (se non l’intento pratico e non commendevole di premiare la lobby bancaria), e, altrettanto ingiustificatamente, punendo i cittadini che hanno osato fare causa o che ne avessero solo l’intenzione.
D’altro canto viola il principio di ragionevolezza il dato oggettivo per cui, circa 69 anni dopo l’entrata in vigore della norma di carattere generale sulla prescrizione, l’art. 2935 c.c., riceva una interpretazione autentica riservata a favore delle sole Banche e di cui nessuno sentiva il bisogno se non le Banche stesse.
Dunque la norma in esame viola i principi fondamentali dello stato di diritto nel quale dovrebbero esistere regole certe e organi giurisdizionali che le interpretano e le applicano.
Se dilatiamo fuori da ogni logica lo spazio per il Legislatore di introdurre norme interpretative consentendogli, di fatto, di adottare norme innovative che hanno effetto retroattivo senza alcun fondamento di ragionevolezza dovremo prendere atto della
“morte”, nel nostro Paese, dello stato di diritto.
Infatti nessuna regola potrà più dirsi certa, nemmeno una norma del codice in vigore da quasi settanta anni, nessun organo giurisdizionale potrà più serenamente applicare la regola dopo averla interpretata, e nessuna persona potrà valutare se intraprendere un’azione o far valere un diritto perché al Legislatore sarà consentito, con norma interpretativa, dire oggi che non è mai esistito un diritto che per decenni, sulle scorta della stessa norma, si è ritenuto esistente o, anche solo, era ragionevole ritenere esistente.
Per queste ragioni la nuova norma viola il principio dell’affidamento ragionevolmente maturato da tutti di coloro che, sulla scorta di un consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale hanno fatto ricorso o intendevano fare ricorso alla Autorità Giudiziaria per tutelare i loro diritti nei confronti delle banche.
Si pensi a coloro, e sono molti, che hanno già vinto cause in primo grado e ora si troveranno, in ipotesi, a dover rimettere tutto in discussione in appello, alla luce della inattesa regalia che il Parlamento a pensato bene di fare alle banche.

d.2) Altri profili di violazione dell’art. 3 Cost.
Nelle numerose sentenze in cui la Suprema Corte ha trattato il problema della prescrizione nei rapporti di conto corrente bancario ha fatto applicazione piana e chiara dei principi generali in tema di prescrizione.
La nuova norma stravolge questi principi, solo limitatamente ai rapporti di conto corrente bancario, con una
legge ad personam, fatta apposta per le banche, integrandosi di tal guisa una conclamata violazione dell’art. 3 della Costituzione.
Infatti, se il contratto di conto corrente, come più volte ha insegnato la Suprema Corte, è riconducibile principalmente alla figura del mandato, allora appare assurda. e in contrasto con l’art. 3 Cost., una norma interpretativa che, solo per il conto corrente bancario, stabilisca che la prescrizione inizi a decorrere da ogni annotazione sul conto, mentre per il mandato la prescrizione inizia a decorrere dalla cessazione del rapporto, anche in relazione ai singoli atti giuridici posti in essere in esecuzione del mandato.
In altri termini si trattano in maniera diversa situazioni giuridicamente analoghe, regolate dalla stessa norma, senza che tale diversità di trattamento sia assistita da alcuna logica, se non quella di favorire alcuni operatori commerciali (le banche) in danno degli utenti.
Parimenti la stessa violazione dell’art. 3 Cost. si realizza ove si abbia a mente il contratto di deposito, che pure connota intimamente il contratto di conto corrente.
In questo caso è pacifico che la prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione della cosa depositata inizia a decorrere dalla cessazione del contratto e non dalla data di deposito del bene.
Non ha dunque anche qui la benché minima logica, e contrasta con l’art. 3 Cost., che il deposito bancario in conto corrente abbia un trattamento illogico ed incongruo del tutto diverso, ai fini della prescrizione, dal trattamento, sempre in tema di prescrizione, riservato ad un contratto di deposito che intervenga tra soggetti diversi dalle banche

d.3) Violazione del diritto di difesa – Art. 24 Cost.
Sotto questo profilo
la norma viola in modo plateale l’articolo 24 della Costituzione in quanto pregiudica l’effettività del diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Infatti modifica, con un preteso effetto retroattivo, non una norma ma una interpretazione data per pacifica a garantita a Sezioni Unite, modificando in corsa le regole processuali e sostanziali su cui si era formato un legittimo affidamento.

d.3) Violazione della potestà Giurisdizionale – Art. 102 Cost – Violazione dei principi del giusto processo Art. 111 Cost.
Marchiana è poi la violazione dell’art. 102 della Costituzione.
Infatti a fronte di una giurisprudenza decennale e consolidata della Giurisprudenza della Suprema Corte e, guarda caso, a pochi mesi da una decisione importantissima presa dal Supremo organo Giudicante a Sezioni Unite, e quindi nella veste più autorevole in cui tale organo di rilievo costituzionale, espressione massima del potere giudiziario, svolge la sua funzione nomofilattica, viene adottata una normetta, che, astraendosi da ogni considerazione dogmatica sulla struttura del conto corrente, pretende di introdurre una interpretazione diametralmente opposta a quella fornita in modo così costante, e con dovizia di argomenti, dalla Corte stessa.
La norma viola quindi, in modo inusitato ed offensivo l’integrità delle attribuzioni costituzionali dell’Autorità Giudiziaria (art. 102 Cost.).
Tale Considerazione appare tanto più fondata ove si consideri che nel sistema attuale si è progressivamente rafforzata la rilevanza delle decisioni a Sezioni Unite della Suprema Corte andando verso una sostanziale sovrapposizione tra diritto vivente coniato nella attività interpretativa della Suprema Corte e il diritto positivo (vd. sopra paragrafo C).
Nel contempo tale norma viola anche l’art. 111 Cost. atteso che non può dirsi giusto un processo nel quale si realizza un ingiustificato sbilanciamento tra i diritti contrapposti delle parti.
Parti che, in conseguenza di questa norma, vengono poste, l’una in una giustificata condizione di privilegio rispetto alle norme sulla tutela dei diritti, e l’altra in una condizione di ingiustificato sfavore.

d 4) Violazione del principio Costituzione di tutela del risparmio
L’applicazione di tassi ultralegali illegittimi e dell’anatocismo su base trimestrale (o rectius, sulla base dell’ultima decisione di Cass. S.U., di “qualsiasi” capitalizzazione in danno del correntista) mina alla radice il principio del risparmio, garantito dall’art. 47 Cost.
La norma in esame pretende, infatti, di incidere con effetto retroattivo limitando e annullando l’ammontare del credito del risparmiatore-correntista il quale, sulla scorta del diritto vivente, aveva ragione di ritenere di poter legittimamente vantare crediti che la norma in parola ora intende sottrargli.
La norma, dunque, in violazione dell’art. 47 colpisce ingiustamente il risparmiatore e premia colui che questo risparmio nel tempo ha eroso, applicando, tramite accordi di cartello, tassi ultralegali illegittimamente anatocizzati e illegittimi balzelli di varia natura.
L’indebita riscossione e ritenzione di tali ingentissime somme, illegittimamente sottratte ai patrimoni ed ai risparmi dei cittadini, implica la più grave violazione e compressione del diritto costituzionalmente garantito, idoneo ad incidere, per le sue proporzioni, sull’economia e sul reddito dell’intera collettività, sottoposta al devastante sopruso finanziario posto in essere con sistematicità e prepotenza dal ceto bancario.
L’applicazione a regime della norma introdotta realizza la più clamorosa violazione del principio della tutela del risparmio, in tutte le sue forme.
Sotto tale ottica, la violazione costituzionale è addirittura vergognosa.

Per i motivi sopra espressi, si chiede che l’Ill.mo giudicante voglia sollevare la questione di illegittimità costituzionale di detta norma, per i motivi sopra elencati e per gli ulteriori che vorrà individuare.”

 

[1] P. GRECO, Corso di diritto bancario, Padova, 1936, p. 23
[2] Idem.
[3]Richiama Cassazione 21 marzo1963, n. 2505/1976; n. 1392/1969;n. 2545/1972. È ripresa da Cassazione 7 marzo 1987, n. 243; Cassazione 19 giugno 1997, n. 5481; Cassazione 14 aprile 1998, n. 3783

  

 

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