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L’Espresso pubblica Tiziana Pinaffo e lo studio sul crack Finmek

da “L’espresso” del 21-06-07 – SCANDALI FINANZIARI / LE ACROBAZIE DI C.F.

Pubblicati da L’Espresso parte dei contenuti di uno studio sul caso Finmek redatto dallo Studio Pinaffo e depositato presso la Procura della Repubblica – Tribunale di Padova: l’analisi ha contribuito a fare chiarezza nel determinare le responsabilità in capo ai soggetti indagati ed ora in stato d’arresto.

OBBLIGAZIONI FINMEK – Le indagini sul crack da un miliardo di euro della Finmek conducono fino a Ginevra in rue de Candolle, ai piedi della città vecchia.
Al numero 9, al piano terra di una palazzina, c’è l’ufficio dove lavora G.G.. Difficile trovarlo lì, di questi tempi. La Procura della Repubblica di Padova lo cerca per arrestarlo.
Il pm Paola De Franceschi sospetta che G.G.abbia giocato un ruolo non secondario nella girandola di operazioni che nel 2004 ha portato al crollo del castello di carte costruito dal friulano C.F., a lungo accreditato anche in ambienti politici (centrosinistra) come una sorta di genio del management.

Bond Finmek – Come recuperare il danno …

Lo scorso 7 giugno C.F. è finito in carcere insieme a parenti e collaboratori tra cui il fratello L.F. e la moglie D.N. con le accuse, tra l’altro, di associazione per delinquere e bancarotta fraudolenta. Il professionista con base a Ginevra è invece sfuggito alla cattura e adesso, secondo indiscrezioni, starebbe trattando tempi e modi del suo rientro in Italia. Originario di Napoli, dove è nato 57 anni fa, G.G. non è uno dei tanti fiduciari svizzeri che prestano la loro faccia e la loro firma ad affari sul filo del rasoio.
Vive in una villa nell’elegante quartiere di Cologny e ha mantenuto stretti contatti con gli ambienti finanziari della madrepatria. Non per niente, nel suo studio in rue de Candolle, risulta domiciliata la filiale svizzera della società di investimenti MyQube, fondata anni fa da Gian Luca Braggiotti, fratello del banchiere Gerardo e figlio dell’ex numero uno della Comit, Enrico. Il rapporto d’affari non nasce per caso: G.G. è imparentato alla lontana con i Braggiotti.

Spulciando i documenti ufficiali, si scopre che a quello stesso indirizzo in rue de Candolle sono riconducibili numerose società. MyQube, di cui G.G. è anche socio, condivide la sede con la finanziaria Ad Line, una sigla che ricorre spesso nelle indagini sul crack delle aziende di C.F. . Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Ad Line avrebbe incassato milioni di euro prelevati dalle casse di Finmek.
Soldi e titoli viaggiavano tra l’Italia e la Svizzera a gran velocità. Alla fine, però, il contante (alcuni milioni di euro) è rimasto sui conti bancari della società ginevrina che, si sospetta, sarebbe in qualche modo legata allo stesso C.F.. A partire dal 2000, e forse anche da prima, questo stesso copione è andato in scena un’infinità di volte. Mentre il gruppo colava a picco sotto il peso dei debiti, il socio di controllo e i suoi sodali si sono arricchiti spolpando le aziende.

Per anni la Finmek ha funzionato come una discarica. In una complicatissima girandola di affari in cui appare evidente il tentativo di depistare eventuali indagini, C.F. si è fatto carico di un gran numero di società in grave crisi se non addirittura a un passo dal fallimento. Qualche nome: Olivetti personal computer, Magneti Marelli sistemi elettronici, Telit, alcune attività di Italtel e Texas Instruments.
Un successone. I posti di lavoro, almeno sulla carta, sono salvi e a Roma i politici applaudono sbloccando aiuti e sovvenzioni di Stato. Secondo le accuse, dietro questa strategia c’era un disegno criminale preciso. Nel giro di breve tempo le aziende acquisite vengono chiuse oppure di nuovo vendute poco prima del crack definitivo.

Nel frattempo Finmek incassa i sussidi pubblici e C.F. alimenta i suoi conti off shore. L’uomo d’affari friulano riesce anche a costruirsi una solida rete di relazioni in campo politico. A sinistra stringe rapporti con l’entourage dell’ex ministro Pierluigi Bersani, mentre sul fronte opposto finanzia il settimanale “il Domenicale”, fondato da Marcello Dell’Utri.
Nel novembre del 2003, C.F. affida la presidenza del gruppo a Roberto Tronchetti Provera, fratello maggiore di Marco, patron di Pirelli e, a quel tempo, numero uno di Telecom. Ormai c’è poco da fare. Il bilancio fa acqua da tutte le parti. Il capolinea del fallimento arriva nel maggio del 2004.

L’agonia, però, era iniziata molto prima. Secondo la consulente tecnica del tribunale di Padova, Tiziana Pinaffo, i debiti erano ben oltre il livello di guardia già alla fine del 2001, quando scatta l’operazione bond. In sostanza, Caboto, merchant bank del gruppo bancario Intesa, piazza sul mercato obbligazioni Finmek per 150 milioni di euro, che vengono acquistate da oltre 5 mila risparmiatori. Per l’occasione torna in gioco G.G..

Il professionista ginevrino assume la presidenza della Finmek international, la società del Lussemburgo che materialmente emette i bond per 150 milioni. Quei soldi fanno un giro singolare. Il denaro rimane bloccato su due conti vincolati (cash deposits) come garanzia per una linea di credito concessa da Intesa alla stessa Finmek.

Nel marzo del 2003 l’istituto presieduto da G.B. chiede il rimborso del prestito al gruppo C.F., che per soddisfare la richiesta è costretto a consegnare a Intesa i 150 milioni frutto del collocamento del bond. Morale della storia: la banca recupera il suo credito, mentre le obbligazioni spazzatura restano in mano ai risparmiatori. Nella sua relazione il perito del tribunale usa parola pesanti nei confronti di Caboto, che in occasione del collocamento aveva redatto una nota informativa sul gruppo Finmek.
Caboto – sostiene il perito – avrebbe fornito informazioni che “risultano del tutto inattendibili e fuorvianti”. In particolare, spiega ancora il perito, la banca d’affari di Intesa avrebbe messo in risalto “unicamente i punti di forza dell’assetto finanziario” del gruppo di Fulchir, omettendo di “porre in enfasi” anche l’allarmante situazione di indebitamento.

Dopo il crack del 2004, centinaia di investitori hanno promosso cause giudiziarie per rivalersi su Intesa del danno subito e la banca, per evitare guai peggiori, ha promosso una procedura di conciliazione a cui hanno aderito le principali associazioni di difesa dei risparmiatori. Intanto, alla fine del 2001, l’operazione bond con la regia di Caboto fornì a Finmek le risorse indispensabili per dare ossigeno al gruppo in vista di due operazioni importanti.

Ad aprile del 2002 Finmek rileva il controllo della Magneti Marelli sistemi elettronici con 3.400 dipendenti e una decina di stabilimenti e uffici commerciali. Nel ruolo di venditore c’è la Fiat, che a quanto pare non vede l’ora di disfarsi di quell’azienda. Pur di chiudere il contratto il gruppo torinese fa ponti d’oro al compratore.
Il prezzo di vendita viene fissato in 160 milioni di euro, di cui però solo 30 versati alla firma del contratto. Inoltre Fiat versa a Finmek 20 milioni a titolo di “supporto per la ristrutturazione”.
Altri 14,5 vengono erogati come “indennizzo per studi di attività e ricerca”. In altre parole, C.F. si fa carico dell’azienda a costo zero (per lui). Non solo. Nel giro di sei mesi rivende la Magneti Marelli sistemi elettronici a M.P., un suo vecchio amico di Avellino con credenziali di imprenditore quantomeno dubbie.

M.P. non paga in contanti, ma rilevando alcune posizioni debitorie di Finmek. Dura poco. Il nuovo padrone va in crisi e l’azienda torna al punto di partenza.
Nel 2004 Fiat riprende la società ceduta neppure due anni prima. Intanto però, grazie a una serie di acrobazie contabili, l’operazione ha consentito a C.F. di gonfiare l’attivo del gruppo, senza contare le provvigioni erogate a vario titolo e finite sui conti di società off shore.

Ormai la giostra Finmek gira a più non posso e a un certo punto anche le Assicurazioni Generali decidono di salire a bordo. Il problema si chiama Telit, un’azienda di telefonia in cui la compagnia triestina ha investito parecchi milioni di euro. Alla fine del 2001, dopo varie peripezie, Telit rischia il tracollo. Niente paura, arriva C.F..

Il cavaliere bianco annuncia il suo intervento tra squilli di tromba e rulli di tamburi. Le cronache del tempo inneggiano al grande imprenditore che punta a rilanciare uno dei pochi marchi italiani superstiti nel settore delle telecomunicazioni.

Restano nell’ombra, invece, i particolari finanziari dell’operazione. Al termine del loro rapporto, gli analisti della società di revisione Deloitte, concludono che l’acquisizione di Telit “nella sostanza è stata interamente finanziata dal gruppo Generali“. Infatti, alla fine di un tortuoso labirinto di pagamenti, crediti incrociati, pegni e garanzie, si arriva a scoprire che la somma in teoria pagata da Finmek, cioè 25,8 milioni, è stata interamente finanziata da Generali worldwide insurance company. Telit, quindi, trova un nuovo azionista di controllo, ma i problemi dell’azienda restano.

La crisi incombe. Si rischia la chiusura. Nell’aprile del 2003 spunta all’orizzonte il gruppo israeliano Polar, che rileva la società triestina. Le Generali brindano allo scampato pericolo. C.F. riuscirà a tirare avanti ancora per un anno prima del crack. Il tempo di blindare il suo tesoro off shore.

ha collaborato Luigino Canal


 


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